Non mi spaventano i due gradi che si respirano fuori. Ho visto abbastanza cose in quest'anno, eppure inizio ad abituarmi solo ora ai profondi sismi della vita.
Quella sana incoscienza che ci rende vulnerabili le prime volte, ma che poi ci rende impassibili di fronte alle situazioni sconvolgenti. Percepisco silenzio. Un mutismo irreale, per le strade. Sarà che Milano a Santo Stefano non è abitata da chissà quante persone, ma la gente attorno a me sta zitta, non batte ciglio, non alza un dito. Di fronte ad una violenza, ad una frase, un gesto, non sento l'umanità che dovrebbe appartenerci. Quella sensibilità che dovrebbe smuoverci e farci alzare d'impeto. Ci indigniamo a gettone, abbiamo i nostri luoghi comuni, ci rifugiamo nel detto/non detto e viviamo tranquillamente.
Io quest'anno non ho pensato molto alle conseguenze. Ho deciso di vivere come gli altri, ho deciso di non pensare. Ho voluto sperimentare sulla mia pelle cosa potesse significare, come ci si sentisse. E devo dire la verità, per alcuni tratti ho capito che probabilmente si vive meglio. Fa più comodo girare il volto e gli occhi da un'altra parte, far finta di niente e cambiare discorso. Perché ti deresponsabilizza e ti toglie un peso. È come se vivessi da solo, senza dover render conto a nessuno. Figo, eh?
Quando una cosa va male, la colpa non è tua, ma del momento. Non ti tocca, perché è sempre colpa di qualcuno, qualcosa o di qualche periodo. Che, per l'amor del cielo, può capitare. Ma non può essere la routine. O meglio, non può essere la mia routine. Quell'arrendevolezza acidula, io non la riesco minimamente a deglutire. Per me è stato pesante cambiare così completamente il modo di pensare. Abituato come sono a farmi duemila problemi e a pensare ad ogni minima conseguenza di ogni mio gesto, ritrovarmi improvvisamente allo sbaraglio, senza dovermi porre problemi e non pensare, è stato un salto antitetico e radicale. Ma allo stesso tempo curioso, prezioso, interessante.
«Non pensarci, Mark». Per un anno mi sono ripetuto questo. Anche se continuamente la mia vera indole provava in ogni modo a ribaltare il discorso e a pormi quesiti ingannevoli. «E perchè non devo pensarci? Davvero non dovrei farmi problemi? Ma non ho un qualche tipo di responsabilità nei miei gesti, in questa vita?». Ce li ho, certo. «Ma non è il momento di pensarci».
Ma allora quand'è questo momento, quello in cui si deve pensare? Quando si diventa decrepiti, vecchi, rincoglioniti? Ok che le fasce d'età si sono allargate, ma voglio dire: è davvero normale giustificarsi dietro un numero per potersi comportare maturamente in questa terra? No, perché io non ci credo molto a quella roba del diventare padre a cinquant'anni e ritrovarsi tra le mani, come per magia, la maturità e la saggezza, mai posseduti prima in tenera età. Sarà che sono profondamente convinto di una cosa: se sei una persona di merda a vent'anni, è molto complicato che a cinquanta cambi qualcosa.
Per questo ho deciso che l'esperimento può anche concludersi qua. Non ho più voglia di continuare a bere questo bicchiere di genziana fatto (male) in casa. Non mi piace più buttare giù, per il gusto di buttare giù, perché si deve fare. Voglio avere un motivo per rovesciare questo bicchiere di vetro pieno di «posa» per terra e non accontentarmi. Comprare la bottiglia più costosa, dell'amaro più buono, e assaporarne ogni sorso. Pagarla fino all'ultimo centesimo e tenerla bene in fresco. Voglio impazzire nelle mie responsabilità, ma sentirmi tranquillo nelle scelte che dovrò fare, anche se sarò altrove.
(E magari anche dormire, che forse è anche il caso dopo tutti questi anni.)
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