3:32. Boato. Luci spente, gente a letto. La scenografia della notte più dolorosa della storia di questa città ha il retrogusto di macabro. Beffarda e codarda. Così si può definire la madre terra. Quel fatale movimento di placche ha distrutto delle famiglie, una popolazione. Il 6 aprile 2009 è una data simbolo, tatuata nei cuori di tutti gli abitanti de L’Aquila, nessuno escluso. Una scossa di magnitudo 5.9 ha distrutto per sempre i sacrifici e i sogni, che migliaia di persone avevano fatto. Chiudete gli occhi e provate a contare fino a ventitrè. Finito ? Bene, ora riaprite gli occhi e pensate che, in questi ventitrè secondi, a L’Aquila, cadevano giù secoli di storia. Come sabbia. Quella maledetta sabbia. Oltre a chiese di indecifrabile valore storico e a edifici importanti di lunga data, son cadute giù, come carta pesta, anche le case di recente costruzione. Il luogo più sicuro, dove poter costruire una vita, che diventa la sentenza della tua condanna a morte.
Eppure in quella notte non si riusciva ancora a capire molto. Forse le polveri, che quelle mura avevano rilasciato, hanno pervaso i pensieri dei soccorritori, forse il buio, misto al tremore di poco prima, aveva gelato il sangue a quelli che si erano salvati. Una cosa era certa: qualcosa era successo. Qualcosa di storico, di traumatico e, soprattutto, di incancellabile. Il sorgere dell’alba rendeva tutto così chiaro, i primi raggi del sole baciavano quelle pietre buttate lì, dove prima c’era una macchina parcheggiata. I paesini isolati, urlavano, nel silenzio, cercando di farsi sentire. Chiedendo aiuto invano, chiedendo di non permettere che anche loro, in quei piccoli centri di poche centinaia di persone, scomparissero nel vuoto. Le macerie erano troppo pesanti. Il sangue, che sporcava quei mattoni, era l’unica cosa che colorava quei giorni. Grigi, tristi. C’è chi non ce l’ha fatta, chi invece sì. C’è chi sotto quei massi, invalicabili, ha lasciato il proprio corpo, la propria vita. Chi invece ne è uscito vivo, miracolato, immacolato, con dei ferri in mano ed una sciarpa di lana, fatta in quelle ore. La terra fa brutti scherzi, a volte prende, a volte dà. Il rumore delle imprecazioni degli uomini verso il cielo, rimbombava tra le vie della città. Le camionette dei Vigili del Fuoco e i gruppi della Protezione Civile, si smobilitavano per partire immediatamente: destinazione Abruzzo. Quelle ore, così concitate, così frenetiche, hanno fatto uscire fuori tutto il sentimento di una popolazione. Vedere la squadra di rugby della città recuperare corpi, tra le macerie, non è roba da tutti i giorni. Eppure tutto quel sentimento, quella passione e quella forza, non sono bastati per salvare quelle 308 persone, che lì sotto ci hanno lasciato la vita.
E ora ? Sono passati esattamente cinque anni. Cinque anni in cui si sono succeduti governi, parole, promesse. Non fatti. Eppure, ciò che trapelava dopo la scossa, era fiducia. Berlusconi, allora premier, promise una casa a tutti gli sfollati. 65.000 persone, senza casa, furono collocate nelle tendopoli. Le case, ben presto, furono costruite. Poi ? Il vuoto. I soldi non ci sono, la burocrazia ferma tutto. Un G8, che aveva attirato su di sé tutte le attenzioni dei maggiori leader mondiali, lasciava ben presagire. Come dimenticarsi di Obama, che in visita nel capoluogo d’Abruzzo, promise sostegno per ricostruire le chiese distrutte, Michelle voleva addirittura adottarne una. Ad oggi, però, quelle promesse non sono mai state mantenute. E, probabilmente, mai saranno mantenute. I danni stimati nella città, dopo quel maledetto 6 aprile 2009, erano di 10 miliardi. A ripercorrere le strade del centro, ora come ora, non è cambiato nulla. Macerie comprese. Lo Stato, di soldi per ricostruire la città, non ne ha. L’Europa stanziò 493,7 milioni di euro, ma secondo il rapporto redatto dall’europarlamentare Søren Bo Søndergaard, la maggior parte dei soldi è finita in mano alla criminalità organizzata attraverso appalti gonfiati e tangenti. Lo stesso membro della Commissione di controllo sul bilancio dell’Unione europea, ha rivelato come le case, costruite e consegnate a tempo di record, fossero costruite con materiali dannosi alla salute degli uomini. Ad oggi sono rientrate nelle loro case 46mila persone. Quelle che, invece, vivono ancora dentro gli appartamenti del progetto Case sono 11.670. 2.461 è, invece, il totale di coloro che vivono dentro i prefabbricati. Il centro de L’Aquila è vuoto. Il silenzio regna sovrano. Nemmeno il suono di qualche cantiere attivo, niente. Più rumore, invece, hanno fatto i processi intentati, dopo il terremoto. Søndergaard non si sbagliava del tutto, L’Aquila è ancora in ginocchio. L’immagine emblematica di questo terremoto, è la situazione della Casa dello Studente. Le stanze, distrutte, sono ancora lasciate lì, libere, a contatto con l’aria. Le foto dei ragazzi morti dentro quell’edificio, decorano e ravvivano un posto ucciso, che ha ferito il paese intero. Il fatto, che quella casa fosse stata “sabotata”, dimostra a pieno, come si creda negli studenti e come si creda nel nostro paese. Perché L’Aquila, oggi, è abbandonata a sé stessa, tra il rumore di qualche rondine che passa per il centro storico e le urla silenziose di un popolo. Ferito, dalla propria terra.
Be First to Post Comment !
Posta un commento